Frontiere pericolose: l’adattamento
Abstract
I discorsi sull’adattamento ruotano incessantemente intorno a una serie di inossidabili luoghi comuni: ai poli estremi le illusioni fantastiche dei lettori delusi e la programmatica indifferenza dei cinefili irriducibili. La teoria dovrebbe opporsi tenacemente al senso comune ma si è impantanata nel gergo e nell’autoreferenzialità: gli studiosi si leggono tra loro, si posizionano e riposizionano, modificano e aggiornano le loro griglie tassonomiche – quasi sempre triadiche – impegnati a ridefinire all’infinito il continuum che va dalla fedeltà all’originalità. Ai singoli adattamenti chiedono solo la gentilezza di accomodarsi nei relativi scomparti. E poco male se tutto ciò serve solo per orientarsi. Ma la loro terminologia riflette quasi sempre la stessa preoccupazione: l’ossessione della traducibilità. Formalizzando con accanimento un nucleo che nasce da una premessa errata: perché l’adattamento non è una traduzione, è un’interpretazione. O, per meglio dire, non è solo un’interpretazione ma certamente ne implica una. Di tutti gli equivoci questo è il più pericoloso, perché non ha l’alibi dell’ingenuità. Tutto l’estenuante dibattito sulla fedeltà, anche nelle sue più recenti riproposizioni, viene meno laddove si riconosca appunto l’erroneità della premessa. Se è legittimo giudicare una traduzione con il metro della fedeltà, è totalmente privo di pertinenza quando si riconosce l’adattamento come qualcosa di nuovo, una riscrittura di un testo, una sua continuazione, una sua variazione. Se la traduzione cerca riparo nei confortevoli territori della somiglianza, l’adattamento – un buon adattamento – deve spingersi oltre, osare sul terreno della diversità. Partire da un testo significa ripartire, viaggiare, attraversare una frontiera per approdare altrove. E qualche volta, come auspicava Truffaut, fare «un’altra cosa, migliore».Downloads
Riferimenti bibliografici
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