Guido Bonsaver, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia
Abstract
Pare che Mussolini, incontrando Matilde Serao, che aveva aderito al manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce e Amendola, provasse a blandirla chiedendole cosa le costava essere fascista almeno un po’. Se Serao morì poi nel 1927, troppo presto per prendere una posizione definitiva, si sa bene che a moltissimi altri scrittori essere un po’ e anche parecchio fascisti non costò per niente. E si sa pure che il loro assoggettamento era importante per il dittatore, già giornalista e (almeno nelle aspirazioni) uomo di cultura, tendente – osserva Sciascia nel Teatro della memoria – a governare l’Italia «come un redattore-capo»: attento dunque – oltre che a filtrare o snaturare le notizie – a imbrigliare le voci autorevoli, fagocitando la classe intellettuale esistente, formandone una nuova, e controllando tutti i canali di espressione, dalle accademie alla stampa, dal teatro alla produzione libraria.
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