Tornare al silenzio: discorso lirico, soggettività e desoggettivazione
Abstract
Secondo la nota definizione promossa dalla tradizione filosofica occidentale, la poesia non sarebbe un parlare delle cose nel senso logico di fornirne una definizione condivisibile, né un parlare comunicativo alle cose come destinatarie di un messaggio; sarebbe piuttosto un dire che la cosa è, puramente, senza voler dire o tentare di dire cosa è o come è. Sarebbe, quindi, un linguaggio rivelativo-manifestativo e non onto-logico. Attraverso la lettura attenta di due testi esemplari: Hymn to Intellectual Beauty di Shelley e la settima delle Elegie duinesi di Rilke, l'articolo vuole indagare se questo 'linguaggio rivelativo' sia una possibilità davvero praticabile per la lirica - una forma specifica da adottare - o piuttosto un modello antagonista utilizzato dal discorso della logica per definirsi nella sua pratica distinguendosi dalle alternative e, a sua volta, un modello ideale adottato dal discorso lirico per fondarsi come autonomo rispetto al discorso definitorio della logica occidentale. L'obiettivo è distinguere, nei casi presi in considerazione, quel che la poesia 'dice' di voler essere e quel che invece 'fa' nella sua pratica. Sembra che la soggettivazione avvenga nel tentativo/sforzo di costruire una immagine di senso, che è un'operazione infinita e mai definitiva. Eppure, nella lirica, quel che dà una direzione a tale operazione sembra essere un desiderio di desoggettivazione, perché raggiungendo la pienezza della presenza e del senso il soggetto occidentale, la cui soggettività si definisce come in cerca di un senso, deve scomparire. L'articolo vuole cogliere la irriducibile differenza tra il dirsi e il farsi della lirica per capire come i due livelli della sua costruzione retorica interagiscono nel testo.
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