Codici alla mano. I due figli di Iorio in contenzioso estetico-giudiziario
Abstract
Il sottobosco ottocentesco delle transparodie – inversioni sessuali in chiave comica, con personaggi en travesti che riprendono per contrappunto figure mitiche dell’immaginario romanzesco e melodrammatico – risulta incomprensibile se si dimentica che già ad alcune figure carismatiche dell’individualismo moderno erano toccate in sorte evirazioni in piena regola (da The Female Quichotte in poi). A tale famiglia di testi si rifà anche un’opera pionieristica nella storia del diritto d’autore: Il figlio di Iorio (1904) di Eduardo Scarpetta, parodia de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio, dello stesso anno. La “commedia presepiana” – un po’ opera buffa stile belle epoque, un po’ parodia assai casareccia – provocò un piccolo terremoto giudiziario: una richiesta di consenso, una diffida, una querela per plagio, infine un processo fatto di portentose pezze d’appoggio, e con un’intera società cultural-mondana divisa in due – letterati vs commedianti, pianto vs riso, arte alta vs arte plebea, ecc. – , e alcuni intellettuali di prestigio coinvolti in qualità di periti. Caso interessantissimo di sociologia dell’arte, il processo D’Annunzio-Scarpetta è anche un cruciale episodio di storia della cultura: perché ciò che il tribunale ospitò fu anche un dilettantesco e appassionato brainstorming di “comparatistica forense”.
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