Le forme della censura religiosa nell’Egitto moderno. Il caso Awlād Hāratinā di Nağīb Mahfūz
Abstract
In questa comunicazione s’intende analizzare il caso della censura messa in atto da autorità religiose che intervengono nel regolare il limite tra il lecito e l’illecito, allorquando il narratore manipola le storie della religione come altrettanto materiale su cui imprimere la proprio impeto immaginativo. Si prenderà in considerazione la complessa storia editoriale di Awlād Ḥāratinā del romanziere egiziano Nağīb Maḥfūẓ (1911-2006). Quando il romanzo fu pubblicato a puntate nel 1959 sul quotidiano cairota Al-Ahrām, numerose furono le proteste, che aizzate dell’Università islamica di al-Azhar, chiedevano l’interruzione della serializzazione e la messa al bando per i suoi contenuti blasfemi. Scongiurata l’interruzione della pubblicazione a puntate, Awlād Ḥāratinā non vide mai la luce sotto forma di volume in Egitto. Solo nel 1967 la casa editrice libanese Dār al-Ᾱdāb lo pubblicò integralmente, ma la sua diffusione in Egitto rimase a lungo clandestina. La censura di stampo islamico, ritenne il testo altamente denigratorio per l’uso improprio e fantasioso della storia sacra. In primo luogo venne messo in discussione la struttura dell’intera opera (114 capitoli come le sure del Corano). Le vicende dei protagonisti sembravano agli occhi dei religiosi di al-Azhar, richiamare le storie dei profeti: Adamo, Abramo, Mosè, Gesù. Perfino Dio veniva concretizzato nella figura di Ğabalawī, il capostipite e fondatore del quartiere, ucciso da cArafa, personificazione della scienza moderna, che come Nietzsche dichiara la morte di Dio. I personaggi e gli eventi sono altamente simbolici. La narrazione ripercorre attualizzandola la storia sacra dell’umanità. L’accusa era di aver ammantato d’immaginazione, attraverso al letteratura e dunque la finzione, ciò che richiedeva autenticità, rispetto e devozione. A nulla valsero le difese di Maḥfūẓ che sosteneva che il testo era stato incompreso e mal interpretato. Ciò che s’intende analizzare, attraverso i documenti originali, è la natura della messa al bando di questo romanzo, in quanto la censura arriva non da una decisione politica o governativa, né da un decreto presidenziale. Né s’intravede una specifica azione legale contro la sua pubblicazione. Bensì si tratta di una proibizione volta ad evitare anticipatamente lo scompiglio causato dall’eventuale pubblicazione del volume, quella che Jaquemond definisce “la superstition scripturaire”. Nel 1988 due eventi riaccendono i riflettori su Awlād Ḥāratinā: Nağīb Maḥfūẓ riceve il Premio Nobel per la letteratura e Salman Rushdie pubblica The Satanic Verses, a cui segue la condanna a morte (fatwā’) pronunciata da Khomeiny. Ben presto i parallelismi fra i due autori fomentarono le polemiche guidate dalle frange islamiste più estreme. Conseguenza fu l’attentato del 1994 in cui Maḥfūẓ venne ferito da due fanatici islamisti. In quest’occasione si cercherà di tracciare un confronto sulla natura della censura che colpì Awlād Ḥāratinā e The Satanic Verses, in quanto in entrambi i casi è un’autorità religiosa a censurare e non direttamente un’istituzione governativa. Si cercherà altresì di analizzare l’ambigua posizione di Maḥfūẓ, che in alcune dichiarazioni suoi giornali, da ostinato difensore della libertà d’espressione, rifiutò ogni accostamento al caso Rushdie, invocando il boicottaggio e la censura de The Satanic Verses considerato pericoloso per la pace sociale.
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