Primo ‘900: cosa significa l’attacco al tragico, cosa significa la sua difesa
Abstract
Fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 il discorso sul tragico vive – come noto – una profonda fase di rivalutazione. Questa, quasi impersonata nella figura di Henrik Ibsen, trova poi espressione tanto nel lavoro teorico di autori quali György Lukács e Otto Weininger, quanto nella produzione artistica di figure d’eccezione come Hugo von Hofmannsthal e di autori italiani come Scipio Slataper e Giovanni Boine. Il discorso sul tragico diventa a quest’altezza temporale un tentativo di risposta alla crisi epistemologica in atto, la quale – variamente declinata da autori come Henri Bergson, Ernst Mach e naturalmente Friedrich Nietzsche – si sta rapidamente imponendo quale pensiero dominante della prima parte del secolo.
Il tragico del primo ‘900 è cioè uno degli attori principali della battaglia artistico-filosofica introdotta dall’annuncio della “morte di Dio”, cioè dalla distruzione di un sopramondo simbolico in grado di dare fondamento all’immanenza dei nostri atti e delle nostre parole. Si può anzi dire che il tragico primo-novecentesco rappresenta una delle armi più efficaci (l’altra è il pensiero dialettico) per quegli intellettuali che rifiutano di considerare positivamente l’egemonico avanzare degli orizzonti culturali rappresentati da nichilismo e relativismo.
Il mio intervento, oltre a delineare brevemente il confronto fra tragico e anti-tragico nel primissimo ‘900, è dedicato da un lato a tratteggiare le genealogie teoretiche e quelle artistiche sottese ai due posizionamenti, e dall’altro a comprendere cosa i due posizionamenti significhino in relazione ai mutamenti strutturali del tempo (taylorismo, specializzazione, atomizzazione ecc.)
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